venerdì 30 maggio 2014

Estetica Giapponese 1


"L‘estetica giapponese è considerata una parte integrante della cultura nipponica e della vita quotidiana dei giapponesi. Sebbene quest'ultimi abbiano avuto per molti secoli una grande produzione artistica, la disciplina filosofica corrispondente all'estetica occidentale non venne studiata sino alla fine del XIX secolo. L'estetica giapponese è quindi un insieme di ideali tradizionali, tutti nati prima che tale disciplina fosse istituita formalmente: mono no aware (il pathos delle cose), wabi (sommessa e austera bellezza), sabi (patina rustica), shibusa (che coniuga ruvidità e raffinatezza), yugen (profondità misteriosa), iki (stile raffinato) e kire (taglio) sono alcuni di questi ideali, la maggior parte dei quali accomunati dalla nozione Buddista (in particolare Zen) della transitorietà ed evanescenza della vita.
A partire dal
secondo dopoguerra altri ideali estetici hanno fatto la loro comparsa nel Paese nipponico, alcuni ispirati dalla stessa cultura giapponese e dalle sue numerose sub-culture (kawaii e superflat), altri invece influenzati dal periodo storico in cui essi sono comparsi (gutai).

Jo-ha-kyū
La musica del teatro bunraku era sovente scandita dal ritmo del jo-ha-kyū.
Jo-ha-kyū (序破急) è un concetto di modulazione e di movimento applicato a una vasta gamma di arti tradizionali giapponesi. Il termine può essere tradotto in “introduzione, pausa, accelerazione”: ciò significa essenzialmente che tutte le azioni compiute dovrebbero iniziare lentamente, accelerare, per poi finire rapidamente. Questo concetto viene applicato agli elementi della cerimonia del tè giapponese, al kendo, al teatro tradizionale, al gagaku e alla tradizionale collaborazione tipica delle forme poetiche renga e renku.
Applicato alla
musica, il concetto di jo-ha-kyū trova il suo contesto estetico nel pensiero tradizionale giapponese fondato sull'annullamento del gioco di “contrasto” sia di intensità (dinamica) che di velocità (agogica) tipico del patrimonio musicale occidentale, il quale permette un'immediata comprensione a un orecchio occidentale, contrasto non presente nel patrimonio musicale giapponese, caratterizzato da un “ritmo continuo”. Questo “ritmo continuo”, unito alla quasi totale mancanza di emozionalità evidente, rende molto difficile a un orecchio occidentale la comprensione di tale musica. Il jo-ha-kyū punta all'eliminazione da tale contesto di ogni ricerca intellettuale in nome di una percezione del “ritmo continuo” più immediata, in cui jo crea una situazione drammatica che viene sostenuta e sviluppata in un crescendo lento sino ad arrivare allo ha e al kyū finale.
 Il jo-ha-kyū era diffuso anche nel
bugaku, antiche danze facenti parte del vasto repertorio gagaku, l'antica musica di corte o “musica continentale”, poiché importata nel VII secolo dalla Cina e successivamente elaborata sino alla cristallizzazione del repertorio avvenuto nel periodo Heian, divenendo la musica della nobiltà e della casa imperiale. Tuttavia la sua funzione all'interno di tale musica fu limitata, in quanto utilizzato come mera struttura ritmica senza la possibilità di essere paragonato a una vera funzione estetica, e con la sola funzione di precisare la modalità d'esecuzione di ogni brano. Il suo utilizzo predominante si ha invece nel teatro Nō, una delle maggiori tradizioni nel mondo del teatro giapponese, dove il jo-ha-kyū scandisce il ritmo dei vari livelli facenti parte del mugen nō, una delle due grandi classificazioni del Nō. Tale funzione si riscontra anche in altre due forme, il bunraku (il teatro dei burattini, la cui musica era caratterizzata da notevoli variazioni di tempo per poter adattare la narrazione ai movimenti di questi con molti passaggi declamati) e nelle suddette poesie in forma renga.

Wabi-sabi
Wabi-sabi (in Kanji: 侘寂) costituisce una visione del mondo giapponese, o estetica, fondata sull'accoglimento della transitorietà delle cose. L'espressione deriva da due caratteri (wabi) e (sabi).
Tale visione, talvolta descritta come "bellezza imperfetta, impermanente e incompleta" deriva dalla dottrina buddhista dell'anitya (sanscrito, giapp. 無常 mujō; impermanenza).
Secondo Koren, il wabi-sabi è la più evidente e particolare caratteristica di ciò che consideriamo come tradizionale bellezza giapponese dove "occupa all'incirca lo stesso posto dei valori estetici come accade per gli ideali di bellezza e perfezione dell'Antica Grecia in Occidente". Andrew Juniper (1) afferma che "se un oggetto o un'espressione può provocare dentro noi stessi una sensazione di serena malinconia e un ardore spirituale, allora si può dire che quell'oggetto è wabi-sabi". Richard R. Powell (2) riassume dicendo "[il wabi-sabi] nutre tutto ciò che è autentico accettando tre semplici verità: nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto".
Le parole wabi e sabi non si traducono facilmente. Wabi si riferiva originariamente alla solitudine della vita nella natura, lontana dalla società; sabi significava "freddo", "povero" o "appassito". Verso il 14esimo secolo questi significati iniziarono a mutare, assumendo connotazioni più positive. Wabi identifica oggi la semplicità rustica, la freschezza o il silenzio, e può essere applicata sia a oggetti naturali che artificiali, o anche l'eleganza non ostentata. Può anche riferirsi a stranezze o difetti generatisi nel processo di costruzione, che aggiungono unicità ed eleganza all'oggetto. Sabi è la bellezza o la serenità che accompagna l'avanzare dell'età, quando la vita degli oggetti e la sua impermanenza sono evidenziati dalla patina e dall'usura o da eventuali visibili riparazioni.
Sia wabi che sabi suggeriscono sentimenti di desolazione e solitudine. Nella visione dell'universo secondo il
Buddhismo Mahayana, questi possono essere visti come caratteristiche positive, che rappresentano la liberazione dal mondo materiale e la trascendenza verso una vita più semplice. La filosofia Mahayana stessa, comunque, avverte che la comprensione genuina non può essere raggiunta attraverso le parole o il linguaggio, per questo l'accettazione del wabi-sabi in termini non verbali può costituire l'approccio più giusto.
I concetti di wabi e sabi sono originariamente religiosi, ma l'uso che si fa attualmente di queste parole in giapponese è spesso abbastanza causale. In ciò si può notare la natura
sincretica dei sistemi di credenze giapponesi.
Una traduzione molto semplice di wabi-sabi potrebbe essere bellezza triste.
Altra interpretazione possibile è "bellezza austera e, quasi malinconicamente, chiusa in sé".

Mono no aware
Lo hanami (l'ammirazione dei fiori) incarna lo spirito dello mono no aware nel Giappone moderno.
Il termine mono no aware (物の哀れ, “il pathos delle cose”) fu coniato dallo scrittore, erudito e intellettuale giapponese Motoori Norinaga nel XVIII secolo per descrivere l'essenza della cultura giapponese, e rimane tuttora il principale imperativo artistico per i giapponesi. La frase ha origine dalla parola aware che nel Giappone del periodo Heian significava “sentimento” o anche “tristezza”, e dalla parola mono che significa “cose”. Tale termine descrive la bellezza effimera delle cose che svaniscono, oltre a indicare attenzione e ammirazione per ciò che trascorre e mostra i segni del trascorrere del tempo e del suo fluire spontaneo nel corso irreversibile dei processi naturali, una visione estetica che porta nell'animo di chi li osserva e ne diviene cosciente una sensazione di malinconia e solitudine struggenti, e allo stesso tempo l'accettazione dello scorrere implacabile delle cose.
Successivamente mono no aware ha dato vita a un'idea di estetica che già era presente nell'arte, nella
musica e nella poesia giapponese, probabilmente comparsa insieme all'introduzione del Buddismo Zen nel XII secolo; tale filosofia spirituale ha influenzato profondamente tutti gli aspetti della cultura nipponica, compresa l'arte e la religione.
Tale filosofia è incarnata, nel Giappone moderno, nell'amore tradizionale per i
fiori di ciliegio (sakura). Tali fiori sono i più apprezzati dai giapponesi per la loro transitorietà, in quanto di solito cominciano a cadere entro una settimana da quando sbocciano. È proprio l'evanescenza della loro bellezza che evoca in chi guarda il sentimento malinconico di mono no aware.

Yūgen
Il teatro Nō esemplifica il concetto di yūgen, in quanto i gesti e i movimenti di cui è composto vanno in contrasto con i movimenti naturali del corpo, al punto che gli interpreti necessitano di anni di disciplina per poterli padroneggiare appieno. Una volta acquisita tale spontaneità di movimenti si ha l'impressione, come nel caso della “grazia”, di qualcosa di “soprannaturale”.
 Il concetto di
yūgen (幽玄) appare agli inizi del X secolo, non venendo tuttavia largamente utilizzato fino al periodo Kamakura. Può essere considerata la meno definibile tra le idee estetiche giapponesi, e la sue esatta definizione dipende dal contesto in cui viene usata. Benché il termine possa essere tradotto letteralmente come “leggermente scuro”, esso non serve solamente a descrivere il fascino delle cose in penombra di cui non si riesce a conoscere del tutto i limiti e i particolari, ma viene usato anche con senso più ampio, per indicare ciò che, essendo oscuro, è insondabile, misterioso e imperscrutabile. Difatti, un'altra definizione di yūgen implica nell'arte giapponese le capacità misteriose che non possono essere descritte a parole; inoltre il termine letterario “simbolismo” è considerato il più vicino al significato di questa parola giapponese.
Il teatro Nō è l'arte nella quale la nozione di yūgen ha avuto il ruolo più importante. L'attore e drammaturgo
Zeami Motokiyo (1364-1444) (3) è uno dei primi ad adottare e impiantare il concetto di yūgen, in questo caso inteso come “grazia profonda”, al teatro. Egli lo associa con la cultura più raffinata della nobiltà giapponese, e con il loro linguaggio in particolare, pensando che anche nel Nō vi sia “grazia della musica”, una “grazia di interpretazioni [di ruoli diversi]” e una “grazia della danza”. Inoltre Zeami descrive tale “grazia” come qualcosa che dà luogo a «quei momenti di sentimento che trascendono la cognizione e a un'arte che si trova al di là di qualsiasi livello, che l'artista può aver consapevolmente raggiunto». Perciò il teatro Nō si presta in particolare modo al concetto precedente di “indefinibile” (o anche “soprannaturale”), in quanto le sue forme di dizione, gesti, andature e movimenti di danza sono tutti altamente stilizzati ed estremamente innaturali: essi, insieme alla musica, invitano lo spettatore a partecipare alla creazione di una più profonda realtà spirituale. Inoltre, l'indossare una maschera e i testi impliciti contribuiscono alla libera interpretazione dell'opera da parte del pubblico." (4)
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(1) Juniper Andrew, Wabi Sabi: The Japanese Art of Impermanence, Tuttle Publishing 2003
(2) Powell Richard R., Wabi Sabi Simple, Adams Media 2004
(3) Zeami Motokiyo, Il Segreteto del Teatro Nō, Biblioteca Adelphi 1966
(4) brani tratti da Wikipedia.it

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